Le chiese nuove sono tutte brutte?

by don Aurelio

Le chiese di oggi sono indubbiamente più accoglienti, austere e spirituali. Rispetto al passato, sembrano attirare l’attenzione con maggiore umiltà, rinunciando all'opulenza. Spesso, però, sentiamo pareri e impressioni che semplificano troppo la questione, arrivando a pregiudizi. A tal proposito, la nostra visione della chiesa deve essere storica e non storicistica.
Siamo abituati a usare termini che terminano con "-ismi", i quali non facilitano una comprensione oggettiva, facendoci ricadere nel modernismo, nel funzionalismo o nel tradizionalismo dell'Ottocento. Articoli come quelli del professor Paolo Portoghesi e del cardinal Gianfranco Ravasi sull'”Osservatore Romano”, o quelli de “L’Avvenire” del 22 gennaio 2022, offrono spunti di riflessione molto interessanti.
Per molti, però, l’architettura delle nuove chiese è respingente e, in sintesi, brutta. Oggi, sono i musei a essere diventati le nuove "cattedrali". Sembra quasi che si sia avverata la profezia del filosofo Augusto Del Noce: “Ogni presunta avanguardia cattolica, in realtà, è sempre la retroguardia del progressismo”.
Constatiamo che molte delle nuove chiese, specialmente quelle progettate da "archistar", sono orrende, con forme bislunghe, quadrate, a punta, a triangolo, a spirale o trapezoidali. Non vi ritroviamo gli elementi architettonici che per due millenni hanno reso riconoscibili gli edifici sacri. Anche i materiali sono cambiati: pietre, mattoni e marmi hanno ceduto il posto al cemento armato e all’high-tech, facendo sembrare le nuove chiese dei "garage". La nostra chiesa è stata un "garage" per quarant'anni, e non volevamo più farne parte. Oggi, le chiese assomigliano a capannoni industriali, ospedali, discoteche o autosaloni, sembrando prive di una dimensione trascendente. I loro interni sono spesso asettici, disorientanti, come sale d'attesa o sale congressuali d’hotel. L'arredo liturgico, seguendo la moda pauperista, sembra uscito da un catalogo dell'IKEA. Dopo il Concilio Vaticano II abbiamo abbandonato le forme della tradizione cristiana, preferendo stravaganze architettoniche, schiavi della burocrazia incomprensibile delle Commissioni di Arte Sacra.
Forse oggi, al posto della messa, i cittadini, influenzati dalla moda di "culturlandia", preferiscono il brunch in un museo. Verrebbe da dire: “Dio, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Le archistar hanno smarrito il senso del sacro e del bello, perdendosi nella ricerca della “Via pulchritudinis”. A questo proposito, il documento della Conferenza Episcopale Italiana “La progettazione delle nuove chiese” del 1993 è ancora oggi di grande attualità.
Costruire una chiesa di “pietre” esprime il radicamento della chiesa di “persone” nel territorio. Non possiamo pensare alla chiesa solo come a un'opera muraria, ma dobbiamo prima di tutto confrontarci con i parrocchiani, facendoci carico delle loro aspettative e condividendo la loro crescita spirituale. La nostra nuova chiesa, con la sua facciata tondeggiante e la croce curva sul campanile, simboleggia un abbraccio che si estende sulle opere parrocchiali. Essa ripropone la struttura tradizionale: sala per il culto, opere parrocchiali e campanile. Il nostro complesso parrocchiale è un centro che unifica e accoglie la comunità, promuovendo la socializzazione attraverso l'ampio sagrato e il giardino. La sua volumetria, distribuita in tre corpi, si presenta come un'architettura leggera e delicata, che si inserisce nel contesto urbano e suggerisce una serena tensione verso l'alto. L'altare e il tabernacolo, insieme all’ambone e alla sede di presidenza, costituiscono il fulcro spirituale dell’edificio.
La CEI ci ha sostenuto finanziariamente tramite un contributo proveniente dall'8 per mille. Tuttavia, le norme CEI hanno richiesto una certificazione comunale del numero di abitanti, che ha limitato le dimensioni del progetto. Nonostante le nostre richieste, la certificazione è stata insufficiente, costringendoci a ridurre i volumi e i contributi ricevuti. Di conseguenza, oggi non abbiamo abbastanza locali per le attività sociali, e i poveri vengono ospitati nelle aule del catechismo. Persino il campanile è stato abbassato a causa di un anacronistico "campanilismo", diventando tozzo e poco slanciato. Siamo stati costretti a progettare guardando "indietro", basandoci su dimensioni territoriali e demografiche del passato, e non su quelle attuali. I confini parrocchiali, fissati "ad experimentum per tre anni", devono essere rivisti secondo criteri ecclesiali e pastorali, e non secondo visioni soggettive e miopi. La volumetria è ormai definita e non è più possibile modificarla. È un po' come dice il motto latino: “Stat crux dum volvitur urbis”, ovvero “La croce rimane salda mentre il mondo (la città...) gira”. Il mondo, con i suoi amministratori e i laici da sagrestia, ha una natura mutevole e transitoria, ma la fede in Cristo e nella sua croce restano un punto fermo.
Questa conoscenza storica del progetto della nostra chiesa ci rende più prudenti e umili. Ci ricorda la necessità di una critica documentata e di una formazione dei fedeli. C’è chi propone di vendere le chiese per dare il ricavato ai poveri, ma basterebbe costruirle con maggiore attenzione al sociale e alle nuove povertà. Sono stati i poveri a offrire i fondi per costruirle, nonostante le difficoltà politiche e i consigli inutili dei ricchi.
In Francia e Olanda, l’abbandono delle chiese e il vandalismo sono fenomeni preoccupanti, simboli di una "civiltà malata". In Olanda, ogni settimana chiudono due chiese, un processo di secolarizzazione che T. S. Eliot descriverebbe come "Svelti per favore si chiude". Questo problema merita una seria riflessione, come quella che verrà proposta nella pièce teatrale “Tempi nuovi? T.S. Eliot e la Roccia” a Villa Tigullio il 27 luglio 2025. (Vedi locandina completa)
È urgente ripensare la riduzione di chiese a uso profano. Ogni edificio sacro appartiene al popolo di Dio. Dobbiamo passare da una chiesa clericale a una chiesa più ministeriale, capace di valorizzare i carismi e i ministeri laicali. È utile ricordare le leggi del 1855 e del 1867 che confiscarono i beni degli enti religiosi. In conclusione, raccomandiamo:

  • La cura di questo patrimonio spetta a tutta la comunità
  • Ogni decisione deve essere presa in accordo con le normative e con una visione territoriale complessiva
  • Il cambio di destinazione d’uso di un edificio religioso deve coinvolgere tutti i soggetti ecclesiali
  • Prima di essere venduto, un edificio religioso deve essere offerto a un altro Rito
  • Prima del riuso, è importante pubblicare la storia dell’edificio, per evitare decisioni miopi
  • Gli arredi sacri devono essere salvaguardati da aste online e “devote” ruberie
Quale futuro per le nostre chiese in collina? Con sempre meno preti, costi elevati, calo delle offerte e difficoltà di manutenzione, le decisioni devono essere prese dall’intera comunità. È urgente istituire a livello diocesano una commissione competente che esamini la questione dal punto di vista laico, ecclesiastico, e socio-pastorale. Basti pensare che in 36 anni il numero di conventi è crollato.
Rimane una domanda: è economia evangelica o mercato ordinario? Un bene collettivo non può diventare speculazione di pochi.


2025-07-15