
Silenzio e Parola
by don Aurelio
Non ci può essere parola se non c’è insieme silenzio. Il silenzio conferisce spessore di significato alla parola e paradossalmente può diventare ‘assordante silenzio o eloquente silenzio’.
Purtroppo nella nostra società dominano incontrastate le chiacchiere. Alla morte del silenzio, segue inevitabilmente la morte della parola. Il silenzio è il grembo della parola.
Senza silenzio non c’è ascolto e senza ascolto non c’è dialogo.
Se tutti parlano non c’è dialogo ma confusione… come durante i talk show televisivi o le tribune politiche: non si capisce niente, si sente solo un rumore irritante e ti spinge a cambiar canale. Per alcuni è importante quello che devo dire io,l e idee dell’altro non contano.
Chi non è capace di vivere nella solitudine vivrà male nella comunione e chi sa stare in silenzio ascolta e parla meglio.
Il silenzio fa paura, non lascia dormire, obbliga a fare conti inquietanti con se stessi. L’assenza di silenzio è segno inequivocabile di vuoto. La voce di Dio che ci parla si sente solo nel silenzio. Accettare la propria solitudine significa essere amici di se stessi, degli altri e di Dio.
Dal silenzio e dalla solitudine del sepolcro è risorta la vita. La vita che ci ha dato il Suo Spirito.
Dobbiamo distinguere tra ‘parole parlanti’ (Merleau-Ponty), cioè parole che dicono qualcosa, da prendere sul serio, che hanno un peso, che arrivano ‘ da un altrove’, essenziali, autentiche, palpitanti, incandescenti e trasparenti e ‘parole parlate’, non pensate, che scivolano via in superficie, non credibili, fantasma, vocianti per impressionare, compiaciute di sé, gargarismi linguistici che percuotono fastidiosamente l’orecchio. Le parole ‘parlanti’ scaturiscono dal silenzio, dal profondo e provocano una risonanza ‘dentro’.
Per far fiorire il deserto di significato, che ci assedia a causa della svalutazione della parola, ci servono parole essenziali, refrattarie ai trionfi, al successo. Ce ne serviremo per medicare ferite, per sciogliere il gelo, per accedere a solitudine disperate, per schiodare delicatamente porte sigillate portando il peso di ciò che si dice senza deformare concetti e realtà attraverso il linguaggio del politically correct.
Ci preoccupiamo tanto dell’alito cattivo e non ci si accorge che spesso sono le parole che puzzano (e prima ancora i pensieri).
Facciamo largo uso di parole aggressive, pungenti, offensive, taglienti, dure come sassi che umiliano, che condannano, che graffiano e feriscono. Riportiamo nella nostra bocca il linguaggio della carità, usando parole di incoraggiamento, restituendo fiato e speranza a chi è avvilito.
La maldicenza, cioè l’incapacità ‘di dire bene’ si avvale di un giudice non imparziale e di un giustiziere ingiusto. La maldicenza è sempre disgusto di sé proiettato sugli altri. La parola può edificare e demolire, ricucire e dividere, incoraggiare e spegnere.
Oggi imperversa la volgarità, un linguaggio sboccato, sguaiato, aggressivo, provocatorio, villano, insultante, insolente con parolacce, invettive, contumelie, insulti, battute velenose. Anche personaggi che per carica e ruolo dovrebbero offrire esempi di corretezza e senso della misura si abbandonano a insulti, epiteti vergognosi, sguaiataggini vomitate da bocche insospettate, attacchi parossistici contro nemici veri o presunti che non la pensano come loro e demonizzati a causa della loro ‘paranoia’.
Il discorrere pacato, l’argomentare serio, il dibattito sereno delle idee, sembrano essere anticaglie sorpassate, cibi senza sapore.
La trasgressione è diventata una virtù e un comportamento di cui andare fieri, perché al passo coi tempi. Recuperiamo invece una sana trasgressività attraverso la virtù del silenzio e della parola.
2025-04-24